Il 17 novembre 1999, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e ha invitato i Governi ad organizzare attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica in quella giornata. In Italia solo dal 2005 alcuni centri antiviolenza hanno iniziato a celebrare questa giornata. A distanza di 8 anni, Istituzioni ed Enti festeggiano il 25 novembre attraverso iniziative politiche e culturali.
Il 19 giugno 2013, è cominciata la reale presa di coscienza Istituzionale contro la violenza di genere, approvando all’unanimità la Convenzione di Istanbul, strumento internazionale vincolante finalizzato a concretizzare azioni di contrasto alle varie forme di violenza contro le donne. L’8 agosto il Governo Letta ha emanato il Decreto 93/2013 sul Femminicidio, diventando legge il 14 ottobre scorso. Le nuove norme, introdotte nel nostro Ordinamento si basano in misura maggiore, sull’inasprimento delle pene e misure cautelari. Allontanamento d’urgenza, arresto obbligatorio in flagranza, introduzione del braccialetto elettronico per gli stalker, dieci milioni di euro stanziati per la prevenzione, irrevocabilità della querela, alcuni dei punti più discussi dell’articolato. Una legge approvata non con poche polemiche. Al centro del dissenso la presenza nella legge, di articoli che con la violenza di genere non hanno alcuna relazione, quali i furti di rame, misure contro i No Tav, Protezione civile, Province…
Il femmincidio è un crimine occulto, complesso. La soluzione non possiamo trovarla solo nel Diritto, attraverso misure repressive. La prevenzione deve avvenire tramite un processo culturale profondo.
Personalmente ritengo che per parlare di violenza sulle donne, occorra avere sensibilità, pazienza e rispetto, pesando ogni singolo termine, poiché sono proprio le parole a poter provocare conseguenze efficaci o dannose, nella nostra società.
La donna ha cambiato il suo ruolo all’interno della collettività: si è emancipata, è indipendente, economicamente e moralmente. Oggi le donne possono scegliere di decidere da sole il proprio cammino: possono sbagliare, possono lasciare, possono riprovare. Come gli uomini. Fino a pochi anni fa, il genere femminile, era considerato inferiore, e socialmente le donne erano accettate in quanto figlie di , mogli di, sorelle di. Se tradivano l’uomo che le aveva protette ed appoggiate, finivano in carcere, sino al 1963. Il dominio maschile era così inconfutabile, che i divorzi non erano quasi contemplati. Le donne non potevano permettersi di rompere un matrimonio, economicamente non ce l’avrebbero fatta. A distanza di anni però, è ancora insista la mentalità patriarcale e presente la vecchia cultura: mia o di nessun altro. I femminicidi rappresentano più che la vulnerabilità femminile, la debolezza maschile.
La fragilità dell’uomo in quanto tale. Alcuni studi hanno dimostrato come la prima causa di morte violenta di una donna, avvenga per mano di un uomo: ex compagni, amanti, mariti, ex fidanzati. Il rispetto della vita umana deve essere rimarcato a gran voce, in modo sempre più esplicito dalle Istituzioni e società civile. Quanta disinformazione che ancora circonda questo fenomeno endemico. L’immaginario collettivo vuole che gli autori delle violenze siano soggetti senza cultura, stranieri, pazzi. I luoghi comuni si sprecano. Il fenomeno invece riguarda tutte le classi sociali: imprenditori, studenti, operai, professionisti ed impiegati. Il maggior numero di femminicidi avviene nelle regioni del nord Italia, dove la donna ricerca una maggiore emancipazione. Circa l’80 % degli autori delle violenze, sono italiani ed assolutamente “insospettabili” . Uomini perbene, senza disturbi mentali.
Siamo in presenza quindi di maschi “diseducati” affettivamente, che non sanno fare i conti con le sconfitte o le perdite. Uomini che hanno assunto dei modelli culturali per cui il successo corrisponde all’essere, e l’insuccesso, all’annullamento di sé. Non comprendono più che la sconfitta non è la fine. E’ fondamentale che nascano strutture maschili di appoggio e sostegno agli uomini; riunendosi in piccoli gruppi, tematizzando le loro paure, descrivendo le loro angosce per la perdita di potere nel privato, approfondendo il tema della violenza. Dobbiamo insegnare ai nostri figli modelli di realizzazione diversi, trasformandoli in uomini liberi ed indipendenti, con il sostegno di una società presente.
Abbiamo bisogno di rinnovare i linguaggi, affettivi e viscerali. Tante donne hanno paura di ricominciare. Da sole. Il senso di fallimento è grande, la voglia di tenere in piedi la famiglia a tutti i costi le spinge a tollerare le violenze, specialmente in presenza di figli. Alcune di loro si trovano in una condizione di isolamento sociale, tagliando ogni rapporto con amici e parenti. Quando una donna trova il coraggio di uscire dall’incubo di cui è protagonista, deve essere sostenuta ed ascoltata. Mai più dovremo sentire storie di denunce alle Forze dell’Ordine che rispondono di pensarci bene prima di voler accusare il padre dei loro figli.
Non basta lasciare un uomo violento per risolvere il problema. Una donna deve recuperare l’autostima personale, capire di potercela fare. Non è sola. Lo Stato deve essere presente nel percorso di recupero di una persona maltrattata. E’ un cammino difficile, può durare anni.
Fortunatamente sono tantissime le storie di donne riuscite ad uscire dal tunnel di violenze. Tornate alla vita….libere.
Rossella Diaz
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