In Italia oggi soffrono di DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) quasi tre milioni di persone, e nel 90% dei casi si tratta di ragazze. L’OMS ha decretato che anoressia e bulimia sono la seconda causa di morte degli adolescenti dopo gli incidenti stradali. I fattori di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione possono essere di tipo psicologico, biologico o sociale. Vanessa (nome di fantasia per tutela della sua privacy) ha 29 anni, modenese, ed una storia difficile da raccontare. Ha sofferto per molto tempo di un grave disturbo alimentare, il suo vissuto racconta il dolore e la depressione, ma fortunatamente anche la risalita verso una nuova esistenza.
“Probabilmente una parte di me non guarirà mai dall’ossessione del cibo, ma ho capito di non volermi così tanto male, da lasciarmi morire. Ogni storia di anoressia, bulimia o altro disturbo alimentare è a sé, non mi piace generalizzare soprattutto quando parlo di questo argomento, ma posso riportare quella che è la mia esperienza e la mia storia, attraverso un percorso di ossessione: essere magra a tutti i costi. Erroneamente tante persone pensano che le ragazze anoressiche abbiano problemi legati ad abusi o violenze in famiglia, certamente in alcuni casi è così, ma io ad esempio sono stata (e sono fortunatamente) molto amata dalla mia famiglia. Avevo amici, un fidanzato, studiavo all’università, ed una vita normale come tante mie coetanee. All’inizio della “dieta” pesavo 68 kg, essendo alta 1.70 non ho mai pensato di seguire un regime alimentare controllato, mi piacevo così. Poi qualcosa dentro di me è scattato. Più mi guardavo intorno e più vedevo solo ragazze bellissime e magrissime. Molto più magre di me… ed io non mi sentivo più all’altezza. Così ho deciso di voler perdere qualche chilo. Ho cominciato a contare le calorie ingerite, riducevo le porzioni, mi pesavo almeno due volte al giorno. Raggiunto il peso prefissato volevo dimagrire ancora, mi dava un senso di controllo governare il mio corpo. Era esaltante vedere il mio fisico più esile, le ossa spuntare dalla pelle, i kili diminuire. Ma non era mai abbastanza. Ho cominciato a nascondere il cibo, a vomitare, ad assumere lassativi a fare sport in modo ossessivo. Le persone continuavano a dirmi quanto stavo bene così magra, ed io mi nutrivo di queste parole per perdere ancora più peso. Gradatamente sono arrivata a mangiare solo qualche foglia d’insalata oppure una mela in tutto il giorno, ero terrorizzata che il cibo introdotto potesse farmi ingrassare, il grasso degli alimenti mi schifava, mi faceva senso anche solo toccare il cibo con le mani. Pian piano mi stavo isolando: ho lasciato il mio fidanzato, non frequentavo più l’università, non uscivo più con gli amici, i miei genitori erano disperati perché capivano che dovevano fare qualcosa, si sentivano impotenti perché io non gli permettevo di aiutarmi. In certi momenti ero talmente affamata, che il mio stomaco si ritorceva, magari poi mi abbuffavo… ma i sensi di colpa mi facevano indurre il vomito immediatamente. Sono arrivata a pesare 41 kili, non avevo più il ciclo mestruale, perdevo i capelli…ero orribile…continuavo a vedermi grassa.
Lo specchio rifletteva un’immagine distorta, ma all’epoca non lo capivo. Sinceramente non so perché sia toccata a me questa esperienza di autodistruzione del corpo e dell’anima. Probabilmente, non volendomi così tanto male da farmi morire, ho deciso di andare dallo psicologo… e provare a risalire, pian piano, senza troppe aspettative perché non avrei permesso a nessuno di obbligarmi a provare nuovamente piacere nel cibo, nello stare a tavola, nel toccare gli alimenti, nell’andare a cena con gli amici, nel cucinare. Io volevo il controllo della mia vita, del mio corpo, delle mie emozioni. Oggi però, posso affermare che solo con l’amore si può provare ad uscire da questa malattia. Perché di malattia si tratta. Amare ed amarsi. Non più solo bilancia, chili, calorie ma provare a rispettare se stessi per quello che si è, fidandosi degli specialisti e riuscire ad avere con loro un rapporto umano oltre che professionale, perché la magrezza è solo l’immagine dietro cui si nasconde un profondo disagio esistenziale e psicologico. Oggi a distanza di dieci anni mi guardo indietro e vedo di aver fatto dei passi da gigante, anche se forse una parte di me avrà sempre un po’ di ossessione per il peso, posso dire di esserne uscita grazie alle persone che mi vogliono bene, al mio gruppo di amiche conosciuto durante i ricoveri, ai miei psicoterapeuti e soprattutto…grazie a me stessa…che ho deciso di tornare a vivere.
Il controllo del corpo era diventato per Vanessa così come per tante altre persone, una corsa autodistruttiva in cui lo scopo iniziale, ossia l’essere accettati dagli altri, è totalmente accantonato a favore della magrezza e del controllo che diventano l’unico obiettivo della propria esistenza. In Italia soffrono di DCA (anoressia, bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata) tre milioni di persone, l’età di esordio della malattia è sempre più bassa, infatti possono essere colpiti anche i bambini a partire dagli otto anni. Se la diagnosi è precoce e il trattamento intensivo ed affidato ad un’équipe di specialisti quali psicologi, psicoterapeuti e nutrizionisti, i pazienti hanno buone probabilità di recupero. La difficoltà di accettare la cura è certamente uno dei più importanti fattori di cronicizzazione dei disturbi del comportamento alimentare, circa il 6-10% delle persone affette da anoressia muore e almeno la metà di queste morti è conseguenza della malnutrizione e delle sue complicanze organiche, mentre il restante 50% si toglie la vita.
Molto ha fatto discutere la proposta di Legge depositata qualche mese fa in Parlamento in merito ai DCA, che ha diviso la comunità medico-scientifica tra i favorevoli e i contrari, ossia imporre il trattamento sanitario obbligatorio e le cure psichiatriche ai ragazzi che rifiutano il cibo e sono in pericolo di vita, poiché spesso si arriva ad intervenire su una situazione compromessa, quando la malattia è ormai cronicizzata con reali complicanze fisiche. In realtà esistono già dispositivi per intervenire in casi estremi di pericolo di vita con il TSO, quando il paziente ha una grave patologia psichica, ma non è assolutamente sempre il caso di una situazione clinica di anoressia. Fabiola De Clercq, fondatrice di Aba (Associazione bulimia-anoressia), scrittrice ed esperta di DCA degli adolescenti, boccia su tutti i fronti questa proposta in quanto sostiene che “è dimostrato come nei primi 5 anni il tasso di mortalità è più elevato nei casi di TSO piuttosto che in quelli di trattamento volontario” ed ancora “il disturbo dell’alimentazione è il sintomo di un disagio profondo, si deve lavorare sulle ragioni del disagio, non sul sintomo, che va visto come una specie di autoterapia”.
La dottoressa modenese Elisabetta Berardi, psicologa con formazione psicoanalitica (SIPP), sostiene in merito ai DCA: “Premettendo che ogni singolo caso di disturbo dell’alimentazione ha le sue peculiarità e che non vi sono legami lineari e certi di causa effetto a spiegarne l’origine, si possono però riscontrare degli elementi ricorrenti legati a dinamiche relazionali precoci connotate da una difficoltà a ricevere nutrimento dall’altro. Con anoressia nervosa si fa riferimento ad una ricerca fanatica della magrezza portata avanti attraverso modalità restrittive come un massiccio rifiuto del cibo fino al digiuno o l’iperattività. In tale dinamica vengono coinvolte le funzioni psicologiche, neuroendocrine, ormonali e metaboliche e nei casi più gravi possono svilupparsi malnutrizione, inedia, amenorrea ed emaciazione. La dieta inizia spesso come un gioco che poi sfugge di mano cedendo il passo ad una ideazione ossessiva legata al cibo e al peso del corpo. La mente arriva ad essere totalmente assorbita da questa nuova ossessione con una considerevole perdita di interessi e relazioni. La bulimia viene in genere distinta dall’anoressia sulla base di un peso della paziente nella norma e della presenza di episodi di iperalimentazione tramite abbuffate seguiti da condotte di eliminazione. Infine, con disturbo da alimentazione incontrollata si fa riferimento ad episodi di abbuffate tipici della bulimia senza però i comportamenti compensatori atti a mantenere il peso nella norma. L’assunzione del cibo viene in genere utilizzato per calmare le proprie ansie”.
Riguardo i segnali di allarme che sono all’esordio di un disturbo alimentare la dottoressa Berardi continua “in particolare nei casi di anoressia, quando il tentativo di dimagrire sfugge di mano vi è un progressivo impossessarsi dello spazio della quotidianità da parte del sintomo, ed anche la famiglia viene coinvolta in quanto chiamata a far fronte ad una regressione infantile della persona malata che spesso perde progressivamente autonomie prima acquisite. L’anoressica ha spesso delle dispercezioni corporee, per cui si vede grassa nonostante la magrezza. Per quanto concerne la bulimia o l’alimentazione incontrollata il coinvolgimento della famiglia è forse meno evidente ma in ogni caso, in riferimento a tutti e tre i disturbi, credo sia importante sottolineare da una parte la necessità di rispettare il sintomo dall’altra quella di occuparsene, o aiutare la persona a farlo chiedendo aiuto a dei professionisti. Per poter chiedere aiuto, occorre forse uscire da una dinamica di vergogna e colpa per cui facilmente un famigliare, in particolare un genitore, pensa che se vi è un disturbo alimentare allora è segno che ha sbagliato qualcosa o immagina che certamente verrà accusato di questo da un eventuale professionista. Al contrario, il professionista, in quanto tale, è tenuto a cercare di comprendere cosa non ha funzionato o non funziona per consentire al paziente di poter recuperare una capacità di relazionarsi in modo costruttivo in primis con le persone a lui care”. La dott.ssa Berardi rispetto all’influenza di un’immagine di “donna patinata” conclude: “ritengo che un modello ideale di perfezione possa colludere con talune difficoltà di accettazione da parte di chi, per altre ragioni, ha un rapporto difficile con il proprio corpo, laddove vi sia già una fragilità e una predisposizione a sviluppare disturbi del comportamento alimentare”.
Facendo riferimento all’ultimo punto trattato dalla psicologa Berardi, volgendo uno sguardo ai media al giorno d’oggi, siamo circondati da un’immagine di donna bella, bellissima, ma soprattutto magra: miss, attrici, modelle tutte con taglia 38 (o 36). La maggior parte delle donne italiane indossano invece una taglia più comoda (42, 44 o 46) ma non per questo sono meno attraenti o vincenti, rispetto ad un modello di soggetto a cui aspirare propinato dalla moda. Purtroppo non sempre questo monito è chiaro alle giovani ragazze, in cui magrezza è sinonimo di bellezza e successo. Uno studio recente coordinato dai professori Latzer, Katz e Spivak della Facoltà di Social Welfare and Health Sciences dell’Università di Haifa, ha scoperto una correlazione tra l’esposizione ai mezzi di comunicazione (in particolare i social network) e l’autostima.
In base alle informazioni fornite dalle teenager prese a campione, la ricerca dimostra come chi passa più tempo sui social ha una maggiore immagine negativa di sé, insoddisfazione fisica e voglia di iniziare una dieta dimagrante, rispetto a ragazze che trascorrono pochi momenti su internet. Certo è, che troppe ragazze continuano a morire perché vogliono essere magre a tutti i costi, un esempio fra tante è Isabelle Caro, modella ed attrice francese deceduta a soli 28 anni per complicazioni polmonari causa anoressia nervosa. La ragazza diventò celebre anche in Italia, per aver posato nuda in uno scatto di Olivero Toscani, per una pubblicità controversa anti-anoressia (che fece molto discutere) di una famosa azienda di moda. Un altro episodio in merito all’argomento che ha suscitato clamore e polemiche qualche settimana fa proprio nel nostro Paese, riguarda la scelta della rivista “Marieclaire” di far apparire sulla copertina una ragazza realmente magrissima. Molti media e lettori si sono indignati per tale discutibile scelta, ma la direttrice si è giustificata dichiarando che la ragazza in questione è “una sana taglia 38”. Indipendentemente dal fatto che si consideri sana o meno una taglia così ristretta, è fondamentale che il mondo della moda sia estremamente accorto ed inverta la rotta, evitando di scegliere quasi esclusivamente modelle androgine, contribuendo quindi ad una svolta culturale in termini di salute fisica (ed emotiva).
Rossella Diaz
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